1. – Il filo rosso che mi porta scrivere questo breve contributo prende le mosse dall’articolo di Andrea pubblicato il 15 luglio 2021 sul blog di Lavoro Vivo e dal titolo “il licenziamento dei lavoratori inidonei e/o disabili”. Ebbene, sulla scia dall’elaborato di Andrea proverò ad impostare le seguenti pagine, valorizzando, appunto, quegli “accomodamenti ragionevoli” che lui aveva correttamente definito il “fulcro su cui costruire un percorso giudiziale per la possibile resistenza al licenziamento per giustificato motivo oggettivo del lavoratore divenuto inabile”. In merito, va preliminarmente evidenziato come la Repubblica italiana aveva omesso di dare esecuzione alla disposizione dell’articolo 5 della Direttiva Comunitaria n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione. Ed infatti, il nostro legislatore era stato dichiarato inadempiente proprio perché non aveva stabilito, per i datori pubblici e privati, l’obbligo di prevedere “soluzioni ragionevoli” applicabili ai disabili nell’ambito del rapporto lavorativo. Lo Stato italiano, tuttavia, ha sanato tale inadempimento mediante la L. 9 agosto 2013, n, 99 inserendo, nel testo del D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, all’articolo tre, un comma tre bis. In particolare, tale nuova disposizione prevede che, per garantire il rispetto della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro, sia pubblici che privati, sono tenuti ad adottare “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro per assicurare alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori. Deve rilevarsi sul punto che oggi, proprio alla luce dell’esegesi giurisprudenziale in tema di licenziamento per sopravvenuta inidoneità (di cui si dirà nel prosieguo), le osservazioni di Andrea – come rassegnate nel sopra citato articolo – sono di grande attualità, in quanto gli “accomodamenti ragionevoli” rappresentano, a tutti gli effetti, richiamando testualmente le sue stesse parole, quella “previsione normativa di carattere aperto che può essere invocata e riempita di contenuti in ragione delle diverse situazioni e condizioni personali del lavoratore cui è predicabile”.
2. – Partendo da tale filo conduttore, il presente scritto offre la possibilità di un approfondimento sulla tematica del licenziamento del lavoratore affetto da malattia o handicap per sopravvenuta impossibilità della prestazione, a seguito di un giudizio di inidoneità alle mansioni.
A seguito dell’intervento della Cassazione a Sezioni Unite n. 7755 del 19981, e anche in virtù delle disposizioni degli articoli 4 e 10 della L. n. 68 del 1999, appare ormai pacifico che il recesso per sopravvenuta inidoneità alla mansione debba essere ricondotto alla fattispecie del motivo oggettivo.
Sul punto, tuttavia, occorre preliminarmente un breve excursus di ordine sistematico su alcuni principi civilistici sui quali si era formata la dottrina e la giurisprudenza in passato; ciò al fine di comprendere quale sia la portata “dirompente” della previsione normativa “a carattere aperto” degli accomodamenti ragionevoli. Allorquando l’inadempimento del lavoratore risulti causato da eventi attinenti alla sua persona, ci troviamo di fronte ad un motivo di licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa. La dottrina, nel tempo, si è sforzata di ricondurre tale impossibilità, affinché sia rilevante da un punto di vista giuslavoristico, tra i casi civilisticamente individuati dall’art. 1218 c.c. – impossibilità della prestazione – in tema di responsabilità contrattuale, nonché dall’art. 1464 c.c. in relazione all’impossibilità sopravvenuta della prestazione: la sussistenza di tali motivi può determinare il recesso della controparte che non abbia più interesse alla prosecuzione del rapporto.
Invero, l’interpretazione dottrinaria dell’impossibilità sopravvenuta ha suscitato in passato, in ambito civilistico, continue contrapposizioni tra chi riteneva che l’impossibilità sopravvenuta, per essere considerata tale, dovesse avere i caratteri della “assolutezza” e dell’“oggettività” (e cioè riscontrabile), ove l’agente si trovi dinanzi ad un ostacolo non superabile o eliminabile che si pone fuori dalla sua sfera di controllo; e chi, invece, in maniera meno marcata, tendeva a stemperare il carattere dell’assolutezza ritenendo sufficiente la valutazione dello sforzo del debitore proporzionale al fine da raggiungere. Secondo questa seconda tesi interpretativa, non poteva richiedersi al debitore qualunque sforzo e a qualunque costo per l’adempimento dell’obbligazione posta a suo carico ma, al più, che lo sforzo per adempiere alle obbligazioni assunte fosse comunque commisurato alle effettive circostanze di fatto e utile al superamento delle normali difficultas che, invece, il debitore è tenuto a superare. Quale che fosse l’adesione ad un modello interpretativo o all’altro, quel che certamente si tendeva ad escludere è che tali cause di licenziamento potessero determinare una risoluzione automatica del rapporto di lavoro; era necessaria sempre e comunque una valutazione complessiva del rapporto subordinato che investisse la natura dell’attività prestata, il tipo e la dimensione dell’impresa. In ragione di tali presupposti, era piuttosto consolidato l’orientamento giurisprudenziale di legittimità che riteneva sussistere una causa di impossibilità sopravvenuta tale da giustificare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo nel caso in cui il lavoratore fosse affetto da infermità permanente sopravvenuta e non fosse possibile adibirlo ad altre mansioni3, senza che con ciò gravasse sul datore di lavoro l’onere di modificare l’organizzazione aziendale4.
3. – Fatta tale breve premessa di ordine sistematico, il tema oggetto di analisi riguarda due aspetti di interesse rilevante:
a) da una parte, l’obbligo del datore di porre in essere quegli “accomodamenti ragionevoli” atti a consentire al prestatore, disabile o malato, di svolgere la prestazione al fine della conservazione del posto di lavoro. Il rapporto di lavoro con il prestatore affetto da un qualsivoglia stato di inidoneità alla mansione, secondo quanto stabilito da un ormai consolidato orientamento della Cassazione, può essere risolto solo allorché il datore dimostri di aver attuato tutti i possibili “adattamenti” all’organizzazione del lavoro per consentirgli la prosecuzione del rapporto di lavoro e che, comunque, sia impossibile reinserire il lavoratore nel contesto produttivo. Si tratta di ipotesi di giustificato motivo oggettivo, nel solco della interpretazione giurisprudenziale del licenziamento quale extrema ratio che impone, ai fini della tutela del posto di lavoro, anche il cosiddetto obbligo di repêchage con adibizione a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori;
b) dall’altra parte, la questione del repêchage con riferimento alla residua capacità lavorativa posseduta dal lavoratore disabile o malato (quest’ultimo in un’accezione allargata delle norme poste a tutela della disabilità, di cui si dirà meglio nel prosieguo) all’interno della compagine aziendale. In merito, occorre richiamare quanto affermato dalla dottrina secondo cui il controllo di effettività operato dal giudice sul repêchage “opera come strumento consolidato di bilanciamento e proporzionalità tra libertà di iniziativa economica e diritto del lavoro”, proprio al fine di evitare l’abuso del ricorso al licenziamento di tipo oggettivo . A parere della Suprema Corte, il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore è assimilabile al recesso per motivo oggettivo; dunque, nel caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3 della l. 12 marzo 1999, n. 68, dovrà applicarsi la tutela reintegratoria attenuata.
In merito, si segnala un arresto di Cassazione del 02.05.2018, n. 10435 che, seppur riferibile alla diversa fattispecie del licenziamento per motivi economici, consente l’applicazione in via analogica dei principi ivi espressi, con riferimento alla violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore a mansioni alternative cui il medesimo risulti idoneo, compatibilmente con il suo stato di salute.
Al riguardo, i giudici di legittimità – richiamando appunto il suddetto orientamento in tema di obbligo di ripescaggio e tutela reale – affermano, in maniera del tutto condivisibile, che “costituirebbe una grave aporia sistematica ritenere che la violazione dell’obbligo di repêchage possa determinare una tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per motivi economici e precluderla invece nel caso di lavoratore affetto da inidoneità fisica o psichica”.
4. – A questo punto appare necessario esaminare l’elaborazione giurisprudenziale inerente la sopravvenuta inidoneità del lavoratore derivata da una situazione di infermità di lunga durata, tale da non consentire al medesimo di effettuare l’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri prestatori. Tale fattispecie, a parere della Suprema Corte, rientra nel campo di applicazione della Direttiva Comunitaria n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione. Secondo un indirizzo ormai consolidato della Cassazione, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica ricorrono entrambi i requisiti richiesti dalla citata Direttiva e, in particolare, sia l’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, tra cui rientra anche l’ipotesi del licenziamento (art. 3 della direttiva), sia il fattore soggettivo dell’handicap (protetto dall’articolo 1 della direttiva). I giudici di legittimità, quindi, individuano una nozione di handicap più ampia e dinamica rispetto a quella prevista dalla normativa nazionale ex l. n. 68 del 1999, mutuata dal diritto dell’Unione Europea in ragione della avvenuta ratifica da parte di quest’ultima della Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 sui diritti delle persone con disabilità. Nozione questa di più ampio respiro in ragione del richiamo da parte della Cassazione dei principi espressi in alcune sentenze della Corte di Giustizia e, in particolare, a partire dalla sentenza 11 luglio 2006 in causa C- 13/05 e fino alle pronunce successive a tale data. In merito, i giudici di legittimità segnalano a supporto delle proprie argomentazioni l’articolo 5 della Direttiva in esame, a norma del quale è stabilito che per “garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possono ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.
Tale direttiva è stata più volte richiamata dal giudice europeo e, in particolare, nella sentenza 4 luglio 2013, C 312/2011, ove si legge che gli “Stati membri devono stabilire nella propria legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati e cioè efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete (…) senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato”. Come già anticipato, la nuova disposizione ex art. 3, comma 3 bis, del D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, prevede che i datori di lavoro, sia pubblici che privati, sono tenuti ad adottare “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro per assicurare alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori.
5. – Ricostruita la cornice eurounitaria di riferimento a cui si ispira la giurisprudenza di legittimità, occorre evidenziare che la Suprema Corte, nell’affrontare le vicende di licenziamento per sopravvenuta impossibilità, ha sempre tenuto in considerazione quel bilanciamento di interessi di rango costituzionale, affermando che i cosiddetti “accomodamenti ragionevoli” non determinano tout court una violazione della libertà di iniziativa imprenditoriale di cui all’articolo 41 della Costituzione. Attualmente, il punto di svolta per una “resistenza” al recesso ingiustificato, alla luce di un’interpretazione giurisprudenziale che si orienta in base alla normativa sovranazionale, è contestare il recesso proprio in ragione del fatto che era possibile, per il datore di lavoro, adottare soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore disabile/malato di svolgere il lavoro e conservare il posto di lavoro. Senza dimenticare tuttavia che il magistrato, al fine di accertare la legittimità del recesso, deve effettuare una valutazione che si incentra sugli eventuali oneri finanziari che il datore dovrebbe affrontare per adottare tali accorgimenti, da considerarsi quale unico limite all’attuazione della normativa eurounitaria. Ciò, tuttavia, non può costituire un’esimente per il datore, il quale è onerato processualmente, in maniera puntuale, della dimostrazione in giudizio di un’eventuale impossibilità ad aver adottato gli accomodamenti ragionevoli per la salvaguardia del posto di lavoro. Obbligo quest’ultimo che, parafrasando le stesse osservazioni di Andrea rassegnate nel suo citato articolo10, si aggiunge e non si sovrappone a quello del repêchage, dal quale deriva una “tutela rafforzata” che non comprime la libertà organizzata dell’imprenditore prevista costituzionalmente.
Il recesso, pertanto, è illegittimo nel momento in cui l’esborso del datore non risulti sproporzionato ai fini dell’adozione di tali accorgimenti. In sostanza, il pregio dell’orientamento della Cassazione risiede proprio nel dare nuova valenza e rilevanza, nelle vicende di licenziamento per impossibilità sopravvenuta, all’art. 5 della citata Direttiva, che correttamente è stato definito dalla dottrina quale “norma baricentrica” verso cui il sistema di tutele del prestatore deve tendere, ove le “soluzioni ragionevoli” rappresentano “un architrave su cui poggiare il necessario collegamento sistematico tra i diversi sistemi messi a disposizione dell’ordinamento”.
6. – Appare poi interessante evidenziare come l’esegesi giurisprudenziale abbia allargato i confini degli “accomodamenti ragionevoli” inerenti la tutela della disabilità anche alle fattispecie delle malattie gravi, anche se non “coperte” dal sigillo delle certificazioni di invalidità e di disabilità e delle relative tutele previste dalle leggi n. 68/98 e 104/92. In merito, si segnala la sentenza n. 6798 del 19.3.2018, ove la Suprema Corte approfondisce i principi in materia di tutela del disabile e di parità di trattamento richiamando sul punto, in maniera completa e dettagliata, i riferimenti normativi comunitari ed internazionali. La vicenda trattava il caso di un licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni, determinata da malattie (nella specie broncopneumopatia, dermatite da contatto, angioneurosi alle mani) tali da non consentire al medesimo la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro. In punto di diritto, tale provvedimento affronta la questione del bilanciamento di norme rispetto all’interpretazione degli articoli 1453,1455,1464 del codice civile e dell’articolo 3 della legge 604 del 1966, anche in combinato disposto con l’articolo 41 della Costituzione. In estrema sintesi, il tema è fino a che punto deve arrivare la cooperazione del datore di lavoro, in caso di accertata inidoneità fisica del prestatore alle proprie mansioni per determinate patologie o handicap, al fine di salvaguardare il rapporto di lavoro. L’arresto della Cassazione prende le mosse da un ricorso proposto dall’azienda in quanto la sentenza della Corte di Appello di Cagliari rappresentava una indebita ingerenza sulla libertà dell’imprenditore, costituzionalmente tutelata ex art. 41, di organizzare la propria impresa. Secondo la censura della società, il provvedimento oggetto di gravame imponeva infatti al datore di stravolgere, in maniera irragionevole, la propria organizzazione del lavoro con sacrificio anche degli interessi degli altri dipendenti al fine di consentire al lavoratore, proprio mediante la modifica della propria struttura organizzativa, di espletare la propria prestazione. In concreto, secondo l’assunto della società ricorrente, la sentenza di appello era meritevole di censura in quanto obbligava l’imprenditore a spostare alcune unità di personale da un reparto ad un altro per consentire al lavoratore di svolgere le proprie mansioni, nonostante l’azienda non avesse un interesse oggettivamente apprezzabile all’esecuzione parziale della prestazione. La Cassazione risolve la vicenda affermando che il recesso doveva ritenersi illegittimo, in quanto non si configurava per l’azienda un onere finanziario sproporzionato ai fini dell’adozione degli accorgimenti necessari alla conservazione del posto di lavoro.
7. – L’impostazione ermeneutica adottata dai recenti indirizzi giurisprudenziali conferma un orientamento che può definirsi ormai consolidato, con riferimento all’obbligo di reimpiego del dipendente per sopravvenuta inidoneità alla mansione adottando gli “accomodamenti ragionevoli”12. Tale soluzione interpretativa, peraltro, trova un’espressa previsione normativa, in via analogica, anche nell’art. 4 quarto comma l. n. 68 del 1999, in relazione all’obbligo di ricollocazione del disabile sopravvenuto, nonché nell’art. 10, comma 3, che già prevedeva, per evitare il licenziamento, l’attuazione da parte del datore di “tutti i possibili adattamenti dell’organizzazione produttiva”. Senza dimenticare che l’obbligo di trovare un ragionevole adattamento trova un ulteriore riferimento normativo, ai fini della tutela della salute e sicurezza del prestatore, nell’art. 42 d.lgs. 81 del 2008 che stabilisce, in via generale, di adibire, ove possibile, il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori. Alla luce di quanto sin qui esposto, il principio cardine che risulta valorizzato dalla giurisprudenza è quello per cui il recesso non è giustificabile per effetto della sola ineseguibilità della prestazione. In tal senso, l’orientamento della Suprema Corte – che come visto richiama a supporto delle proprie decisioni i principi del diritto internazionale e comunitario sulla parità di trattamento del disabile (e del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione) nel rapporto di lavoro e nel momento della risoluzione dello stesso – confermano una sorta di tutela “rafforzata” a favore del lavoratore, volta a scongiurarne l’espulsione: obiettivo da attuare anche mediante il ricorso agli “accomodamenti ragionevoli” di cui all’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, che condizionano “a monte il potere di recesso del datore”13. Tale ultima disposizione impone una nuova prospettiva sulla condotta doverosa a cui è tenuto il datore di lavoro (trattandosi di un obbligo cogente e di derivazione comunitaria) per individuare soluzioni adeguate alla propria organizzazione aziendale al fine della salvaguardia del posto di lavoro, con il solo limite che tali adattamenti non determinino un costo finanziario sproporzionato a carico di quest’ultimo.
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