da ogni latitudine lo si guardi il lavoro non è mai stato così distante da uno strumento di realizzazione della persona, è divenuto strumento di afflizione
Ci sono cose talmente ovvie che il solo richiamarle uccide immediatamente l’attenzione di chi legge. Ciò nonostante, sono costretto a muovere il primo passo del mio ragionamento partendo dall’ovvio. È ovvio che questa ovvietà è tale per tutti, tranne per chi vi specula sopra. Ma il punto di vista degli speculatori, per quanto straziante, è udibile ovunque solamente perché coincide con la Doxa dominante (dei dominatori). Per gli altri, per chi è costretto a lavorare, è tutta un’altra musica. Il lavoro genera dolore. Quasi esclusivamente dolore. Da ogni latitudine lo si guardi il lavoro non è mai stato così distante dall’essere uno strumento di realizzazione della persona. Esso è divenuto l’esatto contrario: uno strumento di afflizione. Le norme di tutela della persona immessa a lavoro sono state violentemente erose negli ultimi vent’anni, attorno a quelle residue si è scavato un profondo fossato per svuotarne la cogenza e l’effettività (a partire dal venire meno della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo fino alla liberalizzazione dei contratti a termine). Inoltre si è allargato a dismisura il perimetro della parasubordinazione, allentando i meccanismi di verifica volti a individuare l’aggiramento fraudolento dei diritti connessi alla subordinazione. La progressiva estensione della inesigibilità dei diritti ha condotto, in misura direttamente proporzionale, ad una generale ricattabilità del prestatore. Tutto ciò assieme al dramma di salari che, in particolar modo in Italia, non sono minimamente idonei a vivere un’esistenza libera dal bisogno (il lavoro povero è una realtà di fatto). Da ciò ne è scaturito un profondo indebolimento soggettivo, al punto che si sono profondamente ridotti i margini di immunizzazione rispetto agli effetti eziologicamente connessi all’elevata tossicità del lavoro: decessi, infortuni e malattie professionali, discriminazioni di ogni natura, molestie sessuali, ritmi di lavoro insostenibili ecc. ecc. ecc… La risultante complessiva è un tasso sempre maggiore di dolore. Davanti a tutto questo dolore le risposte collettive del conflitto sono complicate da innescare, a causa di un ripiegamento su se stessi e della conseguente incapacità di leggere il portato generale della sofferenza. A ciò si aggiunge la poca credibilità che hanno gli agenti istituzionalmente deputati all’organizzazione della verticalità nello scontro. La risposta individuale per i più appare maggiormente concreta e quindi praticabile. Le reazioni individuali per far cessare o lenire la fonte di questo dolore sono tendenzialmente di tipo elusivo o adattativo. Il primo vettore conduce al fenomeno delle grandi dimissioni. Come noto, nonostante l’aspettativa che “dopo” la pandemia l’economia sarebbe ripartita senza titubanze, da molti mesi gli Stati Uniti (e in misura minore ma sempre rilevante anche l’Europa) fanno i conti con una carenza di manodopera che non sembra rientrare. La disillusione e l’avversione per il lavoro, vissuto come fonte quasi esclusiva di dolore, è la detonazione che produce un esodo che si attiva sul piano individuale, ma viene consistentemente assunto da molti. Come ci spiega con estremo nitore la ricercatrice sociale Francesca Coin: “È questa grande disillusione che fa da sottotesto culturale alle Grandi Dimissioni, trasformando un processo individuale in un fenomeno collettivo teso a rinegoziare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non è più accettabile. Non è più accettabile lavorare 60 ore a settimana e non riuscire a pagare l’affitto. Non è accettabile che i salari scendano mentre i profitti aumentano continuamente. Non è accettabile lavorare a tempo pieno e non potersi permettere una casa, l’istruzione o le cure sanitarie. Non è accettabile passare più tempo al lavoro che in famiglia, nel traffico che con i figli. Non è accettabile che ci si debba sacrificare così tanto per un lavoro che spesso non permette nemmeno la sopravvivenza. (…) In Italia, infatti, mezzo milione di lavoratori si è dimesso nel secondo trimestre del 2021. Il tasso di soddisfazione dei lavoratori, inoltre, è tra i più bassi al mondo – limitato al 5% secondo l’analisi della società di analisi e consulenza Gallup. L’Italia, del resto, è l’unico paese d’Europa in cui gli stipendi negli ultimi vent’anni sono diminuiti invece che aumentare, come dicono i dati OCSE. In cui la pressione fiscale è mediamente più alta rispetto agli altri Paesi europei, nonostante salari e tutele sociali siano più basse, come dice il rapporto su Salari e Occupazione in Italia della Fondazione di Vittorio. In cui il mercato occupazionale è caratterizzato dalla crescita dei contratti a termine e del lavoro dequalificato. L’Italia, in questo senso, è sempre più spesso un luogo di lavoro povero e contemporaneamente è anche il paese con il tasso di occupazione più basso d’Europa dopo la Grecia (62,6%)”. Dunque non si agisce il conflitto ma si sceglie una fuga, a protezione del bene della vita primario. Ma non tutti possono permettersi di allontanarsi dalla mola che tritura la propria esistenza in cambio di salari “da fame”. La maggior parte delle persone messe a lavoro non hanno nessun modo di ingegnarsi in forme alternative di sussistenza, o non sono in grado di affidarsi con ottimismo ai margini di mobilità del mercato. Allora per i più, per i dannati del lavoro, c’è il ricorso all’anestetico. La sostanza che agisce sulle funzioni psichiche come sostegno alla sopportazione del dolore psicofisico.
Bisogna riconoscere che il rapporto tra lavoro e sostanze psicotrope viene da molto lontano. Storicamente, l’uso di alcol e altre sostanze psicoattive è legato al lavoro da circa mille anni. Masticare stimolanti come la foglia di coca e la noce di areca avvolta in una foglia di betel era una pratica comune tra i lavoratori esposti a lunghe ore e lavori pesanti e ripetitivi prima del 1500 d.C.
Come suggerisce il nome, gli stimolanti eccitano il sistema nervoso centrale e aumentano temporaneamente la vigilanza, l’attenzione e l’energia. Non sorprende che i lavoratori manuali in epoca storica si siano rivolti all’uso di stimolanti per stare al passo con le esigenze del loro lavoro. Allo stesso modo, il consumo di alcol sul posto di lavoro era considerato una pratica standard in tutta l’Europa e l’America preindustriali. Tuttavia, mentre l’alcol era ampiamente accettato come antidolorifico, ricompensa e pagamento parziale per i servizi resi, l’intossicazione che ostacolava la produttività del lavoro non era certamente condonata dai datori di lavoro. Con l’avvicinarsi del 20° secolo è cambiato l’approccio verso il consumo di alcol da parte dei dipendenti. Inoltre, le norme sanzionatorie per l’uso illecito di droghe sono diventate sempre più diffuse nel 21° secolo.
Attualmente il consumo di sostanze psicotrope performative è al suo massimo storico, così come il gradiente di repressione punitiva dello stesso.
Il rapporto annuale 2022 della direzione centrale antidroga riporta quanto segue:
“Tra le sostanze sequestrate in kg nel 2021, la cocaina, con il 54,41% sul totale intercettato alle frontiere, è la prima sostanza, seguita dall’hashish, dalla marijuana, dalle altre droghe e dall’eroina. Le droghe sintetiche, che nel 2020 avevano rappresentato il 45,30% del totale intercettato, dovuto all’ingente sequestro di 14.005 kg di amfetamina, nel 2021 con solo 89 kg intercettati risultano in ultima posizione…. Come riportato nel prosieguo negli schemi di dettaglio dedicati alle singole sostanze stupefacenti, si può evidenziare che, nel 2021, le quantità sequestrate in frontiera: – di cocaina, pari a 13.878,17 kg (di cui 13.709,06 kg in ambito marittimo), hanno registrato un incremento del 29,97% rispetto ai 10.678,47 kg del 2020; – di eroina, sono passate dai 71,85 kg del 2020 ai 202,87 kg del 2021 (+182,35%), hanno subito un evidente aumento; – di hashish, sono passate dai 3.285,16 kg del 2020 ai 6.994,73 kg del 2021 (+112,92%), più che raddoppiate; – di marijuana, sono passate dai 2.387,24 kg del 2020 ai 2.258,86 kg del 2021 (-5,38%), leggermente diminuite”.
L’Emcdda (“Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze”, un’agenzia dell’Unione Europea) ha recentemente pubblicato lo European Drug Report 2019, che contiene dati e statistiche sul consumo di stupefacenti nei 28 Paesi Ue, più Norvegia e Turchia.
Nella sezione dedicata all’Italia si legge che, in base alle rilevazioni relative al 2017 (l’anno più recente per cui sono disponibili i dati), un terzo della popolazione italiana (età 15-64 anni) ha fatto uso di droga.
Un fiume di cocaina ha invaso e sta invadendo l’Europa, con l’Italia al primo posto nel vecchio continente per il consumo in rapporto alla popolazione e al centro anche dei traffici per lo smercio delle sostanze stupefacenti. Questo è quanto è emerso dal rapporto 2018 del Global Drug Survey. Dalle loro pubblicazioni esce fuori il seguente quadro: nel mondo soltanto negli Stati Uniti e in Canada si farebbe in proporzione più consumo di cocaina, con l’Italia quindi che sarebbe la prima nazione in questa speciale classifica per quanto riguarda l’Europa. Ogni anno in tutto il mondo vengono prodotte circa 2.000 tonnellate di cocaina. Di queste, 700 tonnellate sono destinate al mercato europeo, mentre il restante va quasi tutto a finire in quello nordamericano, con gli Usa in testa. Da gennaio a ottobre 2019 sono state sequestrate oltre 5 tonnellate di cocaina, quasi il triplo in più rispetto all’intero 2018. Per capire quanto sia in aumento l’uso delle sostanze stupefacenti in Italia, il rapporto – questa volta 2019 – del Global Drug Survey indica nel 43,8% la popolazione italiana che nell’ultimo anno ha fatto uso di sostanze stupefacenti.
Per chi nutrisse dei dubbi sul ferreo e indiscutibile legame tra consumo di cocaina, dolore e prestazione di lavoro è utile ricordare che durante la pandemia – e quindi nel periodo in cui la prestazione lavorativa è stata sospesa o è stato introdotto il lavoro da remoto – il consumo di cocaina è crollato. A dirlo sono i dati del Centro Nazionale per le Dipendenze e il Doping dell’Istituto Superiore di Sanità presentato al 54° Congresso di SIBioC (Società Italiana di Biochimica Clinica e Medicina di Laboratorio), che si è chiuso il 9 ottobre 2022.
Un uso massivo di droga e in particolar modo di cocaina è stato definito come sistemico, al punto da essere stato coniato il neologismo “narcocapitalismo”. Laurent De Sutter (filosofo belga, professore di Teoria del diritto presso la Vrije Universiteit di Bruxelles) ha evidenziato che il capitalismo, piuttosto che come un sistema che accompagna la cocaina, deve essere considerato come interamente innervato da essa, poiché “costituisce la sua energia, la sua sostanza, il suo scopo e il suo modello”. Non solo la finanza internazionale è inscindibile dal commercio della droga, ma è come fossero la stessa cosa: “ogni capitalismo è necessariamente un narcocapitalismo, un capitalismo completamente narcotico la cui eccitabilità è solo l’altra faccia maniacale della depressione, che continua a produrre nonostante si presenti come cura. Infatti, non si tratta certo di una cura ma semplicemente di un oblio, che finisce per trovare la sua forma ideale nell’anestesia praticata ogni giorno su milioni di consumatori di antidepressivi”.
Del resto, non è forse un caso che la maggior parte degli antidepressivi disponibili sul mercato condivida con la cocaina molto di più che la loro natura di prodotto sintetico e l’effetto anestetico derivante dal loro consumo. Dice ancora De Sutter: “a rileggere Freud, ciò che ci si poteva attendere dalla cocaina era proprio quello che gli abitanti stressati delle rovine del capitalismo mondializzato sperano di trarre dalle pillole che ingoiano nel corso della giornata: non sentire nulla – soprattutto il proprio stomaco”. Il narcocapitalismo è il capitalismo della narcosi, quel sonno indotto nel quale gli anestesisti immergono i loro pazienti al fine di liberarli da tutto ciò che impedisce loro di essere efficienti secondo l’ordine vigente – cioè lavorare, lavorare e lavorare ancora.
In questo senso la cocaina diviene un vero e proprio fattore della produzione. Diventa, quindi, una risorsa necessaria per attuare il ciclo produttivo. Oltre la natura, il capitale e l’organizzazione è evidente che il lavoro – così come lo conosciamo oggi e come si dà – non può che essere garantito per il tramite delle sostanze stupefacenti.
Il capitale dal lavoro dopato riesce a strappare al lavoratore anestetizzato:
- ritmi di lavoro altrimenti insostenibili
- maggiore produttività
- meno assenze (per algie psicofisiche)
- docilità e sublimazione del conflitto
- accettazione passiva del salario
Insomma ricchezza.
La cocaina consente il perpetrarsi della congiunzione dei mezzi fisici di lavoro (macchine, utensili, terra e materie prime) con il lavoro umano (in condizioni disumane), creando così un prodotto finito ad altissimo valore aggiunto. L’anestesia è l’unico modo per continuare a lavorare e per immettere dosi sempre più massicce di lavoro umano nei processi produttivi.
A partire da queste premesse, emergono alcune questioni immediatamente contraddittorie che devono essere denunciate senza indugi:
come è possibile che il costo di un fattore della produzione tutto a vantaggio del ciclo di valore dell’impresa sia a carico del lavoratore? Perché egli deve sostenere il costo delle sostanze anestetiche? Sia essa l’illecita cocaina o il lecito antidepressivo? La devoluzione di questo costo sul prestatore di lavoro rappresenta un ulteriore significativo elemento a conferma del massiccio spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale in atto da diversi anni. Ovviamente questa osservazione è una marchiana provocazione, ma innanzi alla prova di condizioni lavorative degradanti, il costo delle sostanze attraverso le quali il prestatore riesce a sopportare l’illecito deve essere necessariamente posto a carico di chi ne beneficia in termini di surplus produttivo o organizzativo.
come è possibile legittimare la schizofrenia di fondo che permea l’esercizio del potere disciplinare nel caso di assunzione di sostanze psicotrope sul luogo di lavoro? Come è possibile che un lavoratore che presenta tutte le caratteristiche per essere giudicato dall’imprenditore “buono” in quanto docile e produttivo grazie all’assunzione di sostanze, possa diventare immediatamente “cattivo” se colto ad assumere? O addirittura a spacciare? Come si fa a non cogliere il nesso tra i costi dell’assunzione e la necessità di integrare il misero salario decurtato dai predetti costi con la vendita delle medesime sostanze che si è costretti ad assumere?
Su tutto questo la giurisprudenza si limita ad esprimere un giudizio di disvalore morale totalmente astratto, perché (volutamente) scollato dalla realtà e dalla microfisica dello sfruttamento contemporaneo. Ad esempio la Corte di Appello di Roma nella recente sentenza del 19/10/2020, n.2175, affrontando il caso di un lavoratore dipendente da cocaina e costretto alla vendita della sostanza, così statuisce: “la recente Cass. 4804/2019 ha giudicato lapidariamente ed in forma di principio di diritto che le attività di detenzione e spaccio di elevate quantità di sostanze stupefacenti (anche per successione), in quanto condotta di grave rilevanza penale è contraria alle norme dell’etica e del vivere comune, sicché ha un riflesso, anche se solo potenziale, oggettivo, idoneo ad incidere in senso risolutorio nel rapporto di lavoro (… ) nel caso di specie, la qualità dello stupefacente detenuto e ceduto (cocaina), e la notevole quantità della detenzione (103 grammi, pari a 90 dosi circa, circa 5000 euro di merce) chiaramente destinata allo spaccio al di là della cessione accertata, rivestono gravità anche penale del tutto significativa ed anche atta a legittimare gravi inferenze sulla personalità morale del prestatore, anche in relazione alla plausibilità di legami non occasionali con ambienti malavitosi (dovendosi ritenere obiettivamente improbabile che un postino che presumibilmente guadagna poco più di mille euro netti al mese, con genitori malati ed indigenti, si compri a suo rischio 5000 euro di cocaina e non faccia piuttosto da tramite a qualcun altro) (…)”. Questo è il miope moralismo con cui si accetta il dolore inflitto al prestatore di lavoro, ma lo si giudica eticamente degradato se egli prova a lenirne gli effetti. È lo stesso moralismo che legge il ricorso alla chimica con lo sguardo bigotto con cui si affronta l’uso ludico delle sostanze. Cosa discutibile anch’essa, ma sicuramente fenomeno diverso e non necessariamente interpolato con quello relativo alla sostenibilità del dolore psicofisico di fondo che si subisce lavorando. Così Cassazione civile sez. lav., 03/03/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 03/03/2020), n.5897: “l’uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, non sono consoni allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto con gli utenti da parte di un dipendente (esplicante mansioni di operatore della mobilità addetto alla verifica del pagamento parcheggio per le vetture in sosta) inserito in un ufficio di rilevanza pubblica”. È di fatto un giudizio estetico quello che domina la scena del diritto sulla materia. Un giudizio che non tiene conto del danno, di chi lo subisce e della condotta illecita di chi lo determina. Ma anche sul piano etico ed etologico questa gogna morale è inaccettabile.
Il dolore psicofisico, così come la pancia vuota, non solo fa sragionare, ma riduce in poltiglia il mondo simbolico. Nessuna cultura umana è mai stata in grado di indennizzarsi definitivamente, nonostante le strategie immaginarie e simboliche messe in campo, dal pericolo che in situazioni estreme – come è quella del dolore psicofisico insopportabile – quelle stesse strategie, e il mondo simbolico così faticosamente eretto, miseramente crollino.
È per tale ragione che Ernesto de Martino giunse a sostenere che tutte le culture umane non siano altro che il ripetuto tentativo di proteggersi dalla catastrofe del mondo (Enzo De Martino “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali” Einaudi 2002), ed è per la medesima ragione che Adorno, che pur sosteneva che un mondo umano non si sia mai realizzato nella storia, ha scritto, in un famoso aforisma dei suoi Minima moralia che… [a]lla domanda circa il fine della società emancipata si ottengono risposte come la realizzazione delle possibilità umane o la ricchezza della vita. Altrettanto illegittima l’inevitabile domanda, altrettanto inevitabile il tono tronfio e urtante della risposta, che ricorda l’ideale socialdemocratico della personalità, proprio di certi naturalisti barbuti della fine del secolo che volevano vivere fino in fondo la loro vita. Risposta delicata sarebbe solo la più grossolana: che nessuno debba più patire (la fame).
È impossibile ridurre totalmente la sostanza non solo al soggetto ma al simbolico stesso. La dipendenza elementare dalla sostanza, che si manifesta nelle crisi di astinenza, svela infatti una radice che nessun organismo soggetto a processi anabolico-catabolici può aggirare.
In che modo, allora, le culture umane hanno tentato di proteggersi dalla catastrofe del senso derivante dal dolore? Non basta rispondere che lo hanno fatto attraverso la produzione di regole simboliche e riti sacrificali. C’è infatti qualcosa di più che è sotto i nostri occhi nel momento in cui osserviamo e riflettiamo sulla questione delle psicotropie. Il pane delle masse contadine, il pane nero, in cui cereali meno nobili del frumento venivano sistematicamente mischiati con erbe allucinogene, come il loglio, non sarebbe stato altro, quindi – sia che fosse stato assunto consapevolmente, sia che lo fosse stato in modo inconsapevole – che un meccanismo psico-sociale di compensazione immaginaria dei disagi della fame e di evasione da un mondo di miseria. Le droghe oblianti e deliranti – precorritrici di quelle “prestazionali” (come la cocaina, le anfetamine o la dopamina) così diffuse in epoca capitalistica – hanno avuto senza alcun dubbio tale funzione compensativa.
Oggi si vuole imprimere il massimo grado di violenza: l’insostenibilità del dolore e la negazione dell’anestesia compensativa per sopportarlo. Delle due l’una. O si combatte lo sfruttamento (cosa decisamente preferibile) o non si condannano le strategie rimediali che i singoli faticosamente (a costo della vita e della salute) pongono in essere. Solo il sadico non vede queste due opzioni come alternative.
Ma se la chimica è finalizzata ad anestetizzare il dolore rispondente ad una patologia psicofisica connessa alla prestazione di lavoro, allora ci resta solo l’interrogarci se la condotta posta in essere dal datore di lavoro è contenuta o meno nel perimetro della liceità.
Nel primo caso, allora si parlerebbe di malattia professionale. E come noto il lavoratore malato non può essere licenziato, se non a causa di un’assenza prolungata oltre il periodo di comporto.
La Cassazione con la sentenza 28 luglio 2022, n. 23674 ha ritenuto che in caso di licenziamento per malattia dovesse essere applicato il principio, già espresso dalla Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 12568 del 2018, secondo cui è nullo il licenziamento intimato prima che il periodo di comporto risulti scaduto. Nella suddetta pronuncia le Sezioni Unite hanno anche evidenziato il carattere imperativo dell’art. 2110 c.c., comma 2, da leggersi in combinazione con l’art. 1418 c.c., che non prevede soluzioni diverse. L’imperatività delle norme va definita in rapporto all’esigenza di tutelare i valori morali o sociali o valori propri di un dato ordinamento giuridico. La Suprema Corte di Cassazione ha reiteratamente affermato il principio secondo cui la salvaguardia della salute è sicuramente un’esigenza prioritaria all’interno dell’ordinamento visto che, a norma dell’art. 32 Cost., trattasi di un “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” parimenti a quello del lavoro.
Il bene salute non può essere adeguatamente tutelato e garantito se non all’interno di tempi sicuri entro cui il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il posto di lavoro. Per tali ragioni, il licenziamento intimato per malattia od infortunio del lavoratore è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c.c., comma 2.
La salvaguardia della salute è un bene primario incomparabilmente più prezioso dei canoni “estetici” e “moralistici” in virtù dei quali si è ritenuto legittimo licenziare un lavoratore che assume sostanze psicotrope o le vende per potersele procurare.
Se poi la condotta datoriale è stata realizzata in violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento a tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, egli non solo non può essere licenziato, ma ai sensi dell’art. 2087 c.c. è tenuto ad essere risarcito del danno non patrimoniale patito.
Restando in tema di danno non patrimoniale ex 2087 c.c., è importante evidenziare che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che incombe sul dipendente che lamenti di avere subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa svolta, l’onere di provare, oltre all’esistenza del danno stesso, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra i due elementi. Dunque il tema della prova è centrale. Non a caso la violentissima repressione deflattiva della domanda di giustizia in atto da almeno quindici anni, quando non si giova di interventi normativi canagliescamente finalizzati a imporre decadenze e prescrizioni, si affida a interpretazioni sempre più severe delle ipotesi di esigibilità dei diritti residui. La prova è appunto il terreno minato con cui viene comunemente immunizzata l’impresa chiamata a rispondere delle condotte illecite. È quindi necessario dismettere la maschera grottesca del tecnicismo, per sostenere con forza che la prova ben può essere fornita per presunzioni semplici e/o per fatti di comune esperienza. E la prova per presunzioni è spesso quella più affidabile, proprio perché non inquinata dal notorio livello di minaccia e ricatto con cui il soggetto forte del contratto di lavoro controlla, direttamente o indirettamente, la deposizione testimoniale dei colleghi del ricorrente. Il ragionamento presuntivo è quell’operazione mentale, a volte anche molto complessa, con la quale un soggetto, basandosi su uno o più dati di partenza, mira – per mezzo di una o più inferenze – a formarsi un convincimento in merito ad uno o più aspetti ignorati di un determinato oggetto. L’inferenza, nella prospettiva probatoria che qui interessa, è un’argomentazione con la quale il soggetto del ragionamento attribuisce ai dati di partenza l’attitudine a fornire elementi di conoscenza sugli aspetti da lui ignorati dell’oggetto sul quale intende formarsi un convincimento. Questa argomentazione è intrisa di “modi di vedere il mondo”, secondo i quali quei dati di partenza significano le conseguenze in termini di conoscenza che sono state ritratte, quale conclusione del ragionamento, sopra gli aspetti ignorati dell’oggetto indagato, o sopra l’esistenza tout court dell’oggetto ignorato. La relazione d’inferenza tra i dati di partenza e la conclusione è pertanto di natura gnoseologica, epistemica. Il ragionamento presuntivo è una species del genus ragionamento probatorio giudiziale, caratterizzata dalla atipicità dei dati di partenza. In questa direzione, correttamente l’art. 2729 c.c. discorre di ammissibilità del ragionamento presuntivo solo in presenza di elementi indiziari “gravi, precisi e concordanti”, anche se questi sono considerati al contempo, e prevalentemente, requisiti di legittimità della presunzione semplice.
Gli elementi indiziari che possono essere legittimamente portati a fondamento di un ragionamento presuntivo sono tutti i possibili fatti, accadimenti e situazioni, nonché segni ed oggetti del mondo esterno, indipendentemente dalla loro natura e conformazione, purché presentino i caratteri della gravità, precisione e concordanza. Vige al riguardo un principio di atipicità del fatto noto, che può essere utilizzato come base del ragionamento presuntivo, principio temperato con la previsione dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Nell’ambito dei suoi ragionamenti non deduttivi il giudice ricorre ampiamente anche al ragionamento abduttivo, ovverosia caratterizzato dalla natura più o meno probabile del nesso di conseguenzialità, sicché le conclusioni sono solo più o meno plausibili/probabili e mai assolutamente certe. Mentre il ragionamento induttivo consente (anche) di formulare delle generalizzazioni, delle regole generali, sulla base di osservazioni essenzialmente empiriche, il ragionamento abduttivo consente di formulare delle ipotesi esplicative, sulla base di determinate premesse di fatto, su casi particolari; e quindi permette di introdurre nuove idee, di ampliare la conoscenza sui fatti della causa rispetto a quanto contenuto nelle premesse stesse, sia pure, come detto, con conclusioni solo plausibili/probabili. L’argomento per abduzione, definibile anche argomento indiziario, serve a risalire da certe conseguenze alla scoperta del fatto che le ha prodotte: l’argomento per abduzione è l’argomento con cui, sapendo che a un certo fatto ipotizzato segue normalmente una data conseguenza, dalla presenza di questa conseguenza, che funziona come indizio del fatto ipotizzato, si risale al fatto stesso.
Poiché la scienza del diritto non è una scienza esatta, le sue argomentazioni sono ben lontane dalla dimostrabilità, quindi la conoscenza del fatto giuridico deve essere necessariamente rivolta alla plausibilità.
Proprio perché il transito della realtà epifenomenica nella realtà giudiziaria non sia una farsa formalistica, occorre richiamare anche il principio secondo cui il Giudice può avvalersi dei fatti di comune esperienza.
L’art. 115, 2° c., cpc, derogando al principio dispositivo, consente al giudice, senza bisogno di prova, di porre a fondamento della decisione le “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza” (principio “notoria non egent probatione”). Per fatto notorio si intende una circostanza conosciuta (o che possa essere obiettivamente conosciuta) da una generalità di persone di media cultura di un dato luogo e in un dato tempo, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non quale evento o situazione solo probabile (Cass. n. 5530/2017; Cass. n. 5438/2017; Cass. n. 10204/2016). Conseguentemente, per aversi fatto notorio, occorre che si tratti di un fatto che si imponga all’osservazione e alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano (cfr. in tal senso: Cass. n. 2808/2013).
Se i fatti notori sono veri e propri accadimenti senza prova e consistono in singole circostanze o fatti determinati, le massime di esperienza sono giudizi ipotetici fondati su leggi scientifiche, naturali, statistiche o di esperienza, ossia discendono da accadimenti che si ripetono in maniera uniforme ed esprimono quindi leggi valide per una molteplicità di casi futuri e, inoltre, si pongono sul piano della valutazione, sicché non sono oggetto del ragionamento probatorio, quanto, piuttosto, strumento del medesimo. Dunque, le massime di esperienza differiscono dai fatti notori in quanto, mentre questi ultimi consistono in circostanze non soggette a prova, le prime sono regole di giudizio basate su leggi scientifiche, naturali, statistiche, o di esperienza, comunemente e pacificamente accettate in un determinato ambiente; pertanto rispetto a queste ultime non si pone un problema di applicazione discrezionale da parte del giudice ma, al contrario, il loro utilizzo nel ragionamento probatorio è doveroso, pena l’illogicità della motivazione che deve essere sempre ricostruita sulla scorta di massime di esperienza comunemente riconosciute e, quindi, comprensibili e controllabili (Cass. n. 20313/2011 e n. 22022/2010).
Tali premesse conducono a ritenere l’assunzione di sostanze psicotrope sul luogo di lavoro un elemento fattuale idoneo a comprovare una sofferenza psicofisica eziologicamente connessa ad un ambiente lavorativo privo delle tutele previste dall’art. 2087 c.c..
Questo è l’esito di una prudente, sincera e coscienziosa valutazione di plausibilità connessa ai fatti notori e alle massime di comune esperienza lungamente già evidenziate. È infatti massima di comune esperienza la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché l’uso tutt’altro che ricreativo delle sostanze impiegate per anestetizzare il dolore.
Si ricorda infatti come la Corte di Cassazione affermi costantemente che il risarcimento del danno da stress lavoro correlato “si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici”. Allo stesso tempo la Corte di legittimità afferma altresì che “il lavoratore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni causati dall’espletamento dell’attività lavorativa non ha l’onere di dimostrare le specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza”. (Cass. n. 10115 del 29/03/2022)
In un’ottica di ragionevolezza e sostanzialità, dunque, è possibile concludere affermando che l’assunzione di sostanze psicotrope non solo non potrà mai di per sé inverare una ipotesi di licenziamento per giusta causa ma, anzi, tale circostanza altro non è che un fatto idoneo a comprovare in termini plausibili l’esistenza di un danno psicofisico riconducibile ad un ambiente lavorativo patogeno. In tali casi, sarà dunque il datore di lavoro a dover provare di aver posto in essere l’effettiva predisposizione di ogni misura volta a tutelare la sicurezza e l’integrità psicofisica del lavoratore.