Ma davvero la convivenza fondata su un legame stabile e duraturo tra due persone dello stesso sesso non basta per poter godere di pari diritti rispetto all’unione di due persone fondata invece sul matrimonio? Ebbene sì, quanto meno fino all’intervento del legislatore del 2016, il quale per la prima volta ha valorizzato un altro modo di intendere la famiglia, quella così detta di fatto, vale a dire quella che non si caratterizza per il vincolo del matrimonio.
L’art. 29 della Costituzione sancisce che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. L’idea di una “società naturale” conduce allora a postulare l’esistenza di un qualcosa che precede il diritto. La Repubblica riconosce quindi i “diritti della famiglia”, come a voler intendere che questi preesistono all’ordinamento repubblicano, perché derivano dalla natura delle cose e non dal diritto.
E così al centro dell’ordinamento costituzionale viene posta la persona umana (la persona ancor prima che il cittadino) con i suoi diritti inviolabili (art. 2 Cost.). Il sistema delle libertà che viene costruito intorno alla persona si ispira ad un principio di “socialità progressiva”, che parte dall’individuo per allargarsi alle formazioni sociali, dove si sviluppa la personalità umana: in primis la famiglia. La nuova visione costituzionale rovescia la costruzione autoritaria propria del fascismo relativa al rapporto tra Stato e persona: ora è lo Stato che vive ed opera in funzione della persona e non viceversa, come allora. Eppure, nonostante ciò, l’unione tra persone dello stesso sesso non beneficia dello stesso favore costituzionale del matrimonio. Escludere la “famiglia” omosessuale dal riconoscimento legale significa negare ai suoi componenti la possibilità di godere del regime giuridico tipico della famiglia matrimoniale. Se tale regime, però, fosse garantito solo ai coniugi perché sposandosi lo hanno liberamente scelto, come si può giustificare che esso sia negato a quelle formazioni familiari a cui viene preclusa questa scelta, a causa della “natura” della loro identità sessuale, certo non liberamente scelta? Ciò si-gnifica assumere l’omosessualità come premessa di un giudizio di valore negativo sulla persona, mentre, semmai, dovrebbe essere il punto di partenza per la ristrutturazione di alcuni tratti della nostra legislazione, in nome del pari diritto a realizzare se stessi.
Ed allora, seppur il dettato costituzionale dell’art. 29 può essere interpretato affermando evidentemente che il nostro ordinamento giuridico tende a favorire le unioni fondate sul matrimonio, ciò non vuol dire che allo stesso tempo debba sfavorire le unioni diverse da quelle matrimoniali. La famiglia fondata sul matrimonio, peraltro, non costituisce più un’entità assoluta, questo è ormai un dato inconfutabile. La storia e l’antropologia ci insegnano che la famiglia è un sistema in continuo divenire e che oggi è drasticamente cambiata: si è trasformata, scissa, moltiplicata. Il paese che i costituenti avevano davanti nel giugno del 1946, quando iniziano il proprio lavoro, si è completamente modificato. La famiglia di oggi non è più solo quella tradizionale e patriarcale di allora. Non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale e al contestuale spontaneo nascere di forme diverse di convivenza che, seppur minoritarie, necessitano però di pari protezione rispetto al modello matrimoniale.
Fatta tale breve premessa si può, quindi, sostenere tranquillamente che le famiglie fondate sull’unione di due persone dello stesso sesso – e non sul matrimonio – trovano comunque riconoscimento sia nell’art. 2 della Costituzione, nel quale viene sancito che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità …”; sia nel successivo art. 3 della Costituzione che, al comma 1, assicura pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, e quindi senza distinzione di orientamento sessuale. Non esiste luogo più adatto per lo sviluppo della personalità dell’uomo se non la propria famiglia, anche se formata dall’unione di due persone del medesimo sesso.
Purtroppo in Italia, a differenza di quanto accade in altri paesi, la realtà di cui si discute è però rimasta immersa per troppo tempo in un vuoto legislativo, nonostante il crescere continuo delle coppie omosessuali ed il presentarsi di sempre più vari modelli familiari. Basti pensare, oltre alla trasformazione sociale, anche alle innovazioni scientifiche sulle tecniche di procreazione assistita, che hanno portato a parlare anche di famiglia omogenitoriale.
Con la legge n. 76 del 2016 (cosiddetta Legge Cirinnà) e l’introduzione dell’istituto della “unione civile” tra persone dello stesso sesso, si è finalmente colmata una lacuna presente nell’ordinamento italiano, già segnalata dalla Corte Edu3. Proprio, all’art. 1 comma 1, tale normativa definisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso una formazione sociale tutelata e riconosciuta dall’art. 2 della Costituzione, e in particolare estende alle coppie omoaffettive il diritto ai trattamenti previdenziali nei termini di cui all’art. 1, comma 20, di tale legge.
Come è noto, però, “la legge non dispone che per l’avvenire”, pertanto essa non può avere alcun effetto retroattivo. Da ciò deriva, ovviamente, la possibilità che vi siano fattispecie non previste dalle leggi o non ancora previste, come quella che ci prestiamo ad analizzare, che chiaramente non possono e non debbono rimanere prive di tutela.
Giungiamo quindi al caso della sentenza del 14 settembre 2021 n. 24694, con la quale la Corte di Cassazione ha negato il diritto al trattamento di reversibilità del partner superstite che non aveva potuto contrarre l’unione civile, essendo il suo compagno deceduto prima della entrata in vigore della menzionata legge n. 76 del 2016. La Cassazione ha riformato la sentenza della Corte di Appello di Milano (del 26 luglio 2018, n. 1005) che, con una coraggiosa quanto innovativa pronuncia, disattendendo quella di primo grado del Tribunale di Milano, aveva accolto integralmente la domanda del partner superstite, riconoscendogli la titolarità del diritto alla pensione di reversibilità, senza sollevare questione di legittimità costituzionale ma applicando direttamente i principi fondamentali, tutti tutelati dall’art. 2 della Costituzione, utilizzato come referente normativo dalla Corte, tanto per l’unione di fatto tra persone omosessuali quanto
per l’istituto della reversibilità. Ed infatti, secondo la Corte di merito, la reversibilità rientrerebbe nel nucleo dei diritti/doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e, quindi, dei diritti fondamentali che il menzionato art. 2 tutela e garantisce all’interno delle formazioni sociali, nel cui novero si deve includere anche l’unione omosessuale, in quanto stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, così come ogni altra forma di comunità idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita sociale. In sintesi, rientra nella nozione di vita familiare anche la relazione di stabile convivenza di una coppia di persone dello stesso sesso. La Corte territoriale ha affermato che il diritto al trattamento pensionistico di reversibilità rappresenta, in pratica, il permanere della solidarietà familiare oltre l’evento morte e va quindi riconosciuto anche al partner superstite di una coppia omosessuale, cui non sia stato consentito di istituzionalizzare la propria relazione. A tale decisione la Corte di merito approda attraverso l’applicazione diretta dell’art. 2 Cost., senza rilevare alcuna necessità di investire la Corte Costituzionale.
La Suprema Corte ribalta di nuovo la decisione, negando il diritto al beneficio pensionistico per il superstite, seppur il medesimo fosse stato stabilmente legato, di fatto, al defunto assicurato omosessuale, non essendo ancora in entrata in vigore della c.d. legge Cirinnà.
Il percorso delineato dalla Suprema Corte muove i propri passi dall’esame della legge in materia di previdenza per gli ingegneri e gli architetti, la quale riconosce il diritto alla pensione di reversibilità a favore del coniuge, il cui status si acquisisce solo con il vincolo derivante dal matrimonio e dall’unione civile7, concludendo che, nel caso di specie, “non può conseguire la pensione di reversibilità chi non ha mai rivestito detto status [di coniuge], neppure nella sua forma successivamente equiparata ai sensi e per gli effetti della L. n. 76 del 2016”. La Corte di Cassazione esclude categoricamente che si possano promuovere interpretazioni estensive del dettato normativo, che non lascia “dubbi interpretativi né margini di discrezionalità tali da consentire un’estensione del diritto a beneficiare della pensione di reversibilità anche ai conviventi di fatto”.
La Cassazione smantella completamente il ragionamento della Corte d’Appello di Milano, individuando due errori di diritto: il primo è relativo all’erronea applicazione della normativa in materia di unioni civili, che viene infatti richiamata dalla Suprema Corte solamente per dichiararne l’inapplicabilità al caso concreto, per violazione dell’art. 11 delle Preleggi; il secondo errore della Corte d’Appello consiste nell’aver attribuito la titolarità del diritto alla prestazione previdenziale, in base al rilievo costituzionale ormai riconosciuto alla stabile convivenza tra soggetti (anche) dello stesso sesso, pur in assenza di specifica legge. Il ragionamento estensivo operato dalla Corte d’Appello risulterebbe viziato quindi per l’assenza dell’intervento del legislatore, l’unico (o eventualmente la Corte costituzionale) al quale spetta l’esercizio della discrezionalità necessaria per attribuire e riconoscere diritti e prestazioni a soggetti altrimenti esclusi.
Così decidendo, la Suprema Corte non ha valorizzato in maniera adeguata la posizione del partner superstite. La Cassazione avrebbe potuto (o forse dovuto) operare un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sulla pensione ai superstiti, arrivando a conclusioni ben diverse o, ancor meglio, avrebbe dovuto rimettere la questione alla Corte Costituzionale per violazione dei già menzionati artt. 2, 3 ma anche dei successivi art. 36 e 38 della Costituzione. Ed invece, con una breve e poco convincente valutazione, la Cassazione reputa non manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, l. n. 76 del 2016, “nella parte in cui non prevede la possibilità di una sua applicabilità retroattiva – e, anzi, senza alcun limite temporale – a tutte le coppie conviventi in modo stabile”.
L’analisi della disciplina della pensione di reversibilità da una parte e la disamina della nozione di famiglia e di vita familiare dall’altra inducono ad esaminare in ottica davvero critica la sentenza in commento, e a ripensare le motivazioni con le quali si esclude l’applicabilità ai partner omosessuali non coniugati ratione temporis.
Contrariamente a quanto valutato dalla Cassazione, si deve partire dall’istituto della pensione per considerarne adeguatamente il proprio fondamento solidaristico e poi focalizzarne il suo significato nel disegno costituzionale. Si consideri come il trattamento di reversibilità, indubbiamente, appare strettamente legato allo svolgimento di un’attività lavorativa, per la quale il lavoratore versa specifici contributi a copertura del futuro trattamento. La Corte costituzionale ha infatti, in diverse occasioni, affermato che la prestazione pensionistica mira a tutelare la continuità del sostentamento ed a prevenire lo stato di bisogno che può derivare dalla morte del coniuge.
Tuttavia, fino al maggio 2016 solo il lavoratore eterosessuale avrebbe lavorato per garantire a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, sia con la retribuzione percepita in vita che con il trattamento pensionistico, mentre il lavoratore omosessuale avrebbe lavorato esclusivamente per sé, venendo meno al diritto-dovere di sostenere i propri familiari e di destinare le proprie energie lavorative anche alla loro tutela. Appare evidente la contraddittorietà di tale ragionamento con quanto disposto dall’art. 36 della Costituzione.
La Cassazione dimentica il principio solidaristico che, al contrario, avrebbe dovuto valorizzare per decidere il caso in esame, anche considerando che la giurisprudenza è intervenuta per estendere il novero dei soggetti beneficiari, affermando che “l’ambito di famiglia presa in considerazione dal regime generale della previdenza sociale tende ad essere più ampio rispetto a quello che fa esclusivo riferimento al matrimonio ed alla filiazione”. Ed infatti, adeguando la nozione di famiglia all’evoluzione della coscienza sociale (“progressiva”), la Corte Costituzionale ha chiarito che, “nella pensione di reversibilità erogata al coniuge superstite, la finalità previdenziale si raccorda a un peculiare fondamento solidaristico. Tale prestazione, difatti, mira a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire lo stato di bisogno che può derivare dalla morte del coniuge Lo stesso fondamento solidaristico permea l’istituto anche nelle sue applicazioni più recenti alle unioni civili”. Inoltre, la concessione del trattamento ai superstiti è stata riconosciuta a soggetti legati al lavoratore defunto da vincoli familiari di vario genere, alla sola condizione che fosse quest’ultimo a provvedere al loro sostentamento, secondo il comune requisito della cosiddetta “vivenza a carico”, vale a dire “il sostentamento del ‘familiare in modo continuativo e non occasionale, in adempimento di uno specifico obbligo giuridico o di un mero dovere”.
Infine, la Corte Costituzionale, davvero recentemente, ha esteso il diritto alla pensione di reversibilità dei nonni anche ai nipoti maggiorenni, orfani dei genitori e inabili al lavoro.
Anche alla luce di tale percorso interpretativo operato dalla giurisprudenza e teso ad ampliare la platea dei beneficiari della pensione di reversibilità, la Corte di Cassazione di cui si discute avrebbe dovuto interrogarsi, se non altro considerando che, seppur esiste una nozione costituzionale di famiglia intesa come “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 cost.), tuttavia essa risulta insoddisfacente, se non adeguatamente coordinata alla progressiva nozione sociale di famiglia, che deve ricomprendere anche altre ipotesi di relazioni fondate sul legame non matrimoniale. Ed invece la Cassazione, adeguandosi a precedente orientamento13, ritiene di negare il diritto alla pensione di reversibilità al superstite, mantenendosi nel solco tracciato dalla Corte costituzionale in riferimento ai conviventi more uxorio. La Suprema Corte ricorda in proposito che il Giudice delle leggi ha escluso che il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana comporti necessariamente il diritto al trattamento di reversibilità per il convivente superstite, ritenendo così costituzionalmente legittime le disposizioni che non includono anche i conviventi more uxorio tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità. In particolare, la pensione di reversibilità non è attribuita in caso di convivenza more uxorio perché, diversamente dal rapporto coniugale, la prima “è fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana” in ogni istante revocabile da ciascuna delle parti e “si caratterizza per l’inesistenza di quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali, che nascono dal matrimonio”.
Tale ragionamento non è esente da vizi però. La Suprema Corte pone infatti sullo stesso livello situazioni assolutamente non sovrapponibili: le coppie omosessuali che non hanno potuto unirsi civilmente (mancando ancora la normativa) e le coppie eterosessuali liberamente conviventi more uxorio. Ma come è mai possibile ritenere equiparabile la situazione di chi conviva perché ha liberamente scelto di non sposarsi e chi invece conviva perché quella è l’unica possibilità legale? Afferma la Corte che “la mancata inclusione del convivente fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità rinviene allora una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che qui per definizione manca”.
È proprio il riferimento alla convivenza di fatto, “fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana liberamente e in ogni istante revocabile” a evidenziare l’ingiustizia della posizione della coppia omosessuale e, in particolare, del superstite della coppia che ha azionato il giudizio. Prima dell’entrata in vigore della L. 76/2016, infatti, mentre i componenti delle coppie etero-sessuali avevano la libertà di optare per il matrimonio e, conseguentemente, di godere dei diritti che da esso la legge fa derivare – tra cui la prestazione pensionistica ai superstiti – altrettanto non poteva dirsi per quelli delle coppie omosessuali. A queste ultime era infatti preclusa la possibilità di istituzionalizzare la propria relazione familiare e, di conseguenza, di acquisire i relativi diritti. Il superstite, infatti, allegava al ricorso l’unica “formalizzazione” possibile della sua unione, ossia l’iscrizione nelle liste istituite dal Comune di Milano. Ma sul punto la Suprema Corte, anziché valorizzare tale elemento, si è limitata ad affermare che “in nessun caso un atto amministrativo potrebbe surrettiziamente imporre alla ricorrente Inarcassa trattamenti pensionistici coperti da riserva relativa di legge ex art. 23 Cost.”. Sarebbe invece – secondo la Corte – necessario un rapporto giuridico, e non solo affettivo, preesistente e formalizzato nelle forme previste dalla legge Cirinnà, non essendo per questo sufficiente la semplice iscrizione delle coppie nelle liste comunali, trattandosi di un mero atto amministrativo. Tale argomentazione davvero non soddisfa, in quanto la coppia si è avvalsa degli unici strumenti che l’ordinamento giuridico le metteva a disposizione ed è difficile sostenere che un rapporto giuridico non sia stato instaurato, posto che l’unica formalità seppur amministrativa concessa all’epoca era stata integrata.
Da tempo peraltro, anche alle coppie omosessuali stabilmente conviventi è stato riconosciuta la titolarità del diritto alla “vita familiare”, ossia del diritto inviolabile a vivere liberamente la propria condizione di coppia, cui l’Italia ha dato appunto attuazione con la Legge Cirinnà sulle unioni civili. Ma neanche questa tesi ha convinto la Corte, che ha invece ribadito che il trattamento di reversibilità si fonda su un preesistente rapporto giuridico formalizzato (il matrimonio, appunto, o l’unione civile), che nel caso di convivenza di fatto invece manca, rendendo quindi legittimo il diverso trattamento tra situazioni che in realtà sono solo apparentemente analoghe.
Se dunque è evidente che il trattamento previdenziale è geneticamente collegato ad un pre-esistente rapporto giuridico, inaccessibile alle coppie omosessuali prima dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, appare però surreale richiedere al ricorrente il possesso di un requisito che non ha potuto acquisire per un ritardo pacificamente non addebitabile al medesimo, bensì allo Stato italiano. Ciò significa penalizzarlo per colpe altrui e non proprie ed è palesemente ingiusto.
Ecco perché, non essendo la Corte di Cassazione riuscita ad estrapolare una norma coerente con i principi fondamentali descritti alla luce del diritto costituzionale, europeo e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale di quelle previsioni precedentemente citate per supposta contrarietà agli artt. 2, 3, comma 2, 36, comma 1 e 38, commi 1 e 2, Cost. Il contrasto sarebbe stato da individuarsi nella parte in cui la normativa non prevede l’estensione dei diritti e dei benefici dedicati al coniuge al superstite che sia stato stabile convivente e congiunto del compagno dello stesso sesso, deceduto però precedentemente all’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016. La circostanza della non avvenuta formalizzazione del loro legame nelle forme dell’unione civile non può considerarsi rilevante, laddove la coppia non avrebbe potuto accedere a questo istituto perché sopravvenuto allo scioglimento della famiglia a causa della morte di uno dei due, e laddove la stabilità e la serietà dell’unione possa essere provata in modo diverso ma analogo (come è nel caso di specie, vista l’avvenuta iscrizione della coppia nel registro del Comune di Milano, ritenuta però, come rilevato, insufficiente dalla Suprema Corte). Una volta rimessa la questione alla Corte costituzionale, questa avrebbe potuto adottare un’ampia serie di disposizioni, come emettere una decisione di incostituzionalità accertata, ma non dichiarata, con conseguente invito al legislatore ad esercitare la sua discrezionalità per superare un’omissione normativa dagli evidenti effetti discriminatori; oppure, ancor meglio, una decisione interpretativa di accoglimento la quale, rilevata e dichiarata l’incostituzionalità, avrebbe fissato essa stessa un’interpretazione conforme. Sarebbe stata quindi la Corte costituzionale a rilevare l’illegittimità della normativa nazionale e ad estendere il diritto alla prestazione di reversibilità al partner superstite legato all’assicurato deceduto da una convivenza stabile e riconosciuta esclusivamente nei modi e nelle forme all’epoca vigenti.
Il contemperamento di interessi fondamentali, direttamente collegati alla dignità della persona e alla funzione solidaristica del trattamento pensionistico, meritava allora una considerazione maggiore da parte del Giudice di legittimità per evitare che nell’ordinamento si determinasse un vuoto di tutela ad evidente denotazione discriminatoria, anche rimettendo la missione alla Corte costituzionale, incaricata a garantire protezione a quelle fattispecie lasciate prive di tutela per omissioni del legislatore. Non si spiega perché la Suprema Corte abbia scelto di non sottoporre la questione alla Consulta e abbia
statuito il punto di diritto controverso interpre- tando la normativa vigente in senso restrittivo, con una valutazione che – si ripete – appare ingiusta oltre che discriminatoria.
Certamente il dibattito sul tema continuerà, anche considerando che vi sono e vi saranno altre pronunce di merito che hanno seguito e seguiranno la tesi sostenuta dalla Corte di appello milanese, riconoscendo il diritto alla reversibilità in fattispecie analoghe a quella di cui trattasi. Pare verosimile – ed anzi auspicabile – che possa esservi un ripensamento dell’orientamento espresso con la sentenza censurata, che purtroppo, però, risulta attualmente ben consolidato15. D’altro canto la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto la facoltà del legislatore di disciplinare le unioni omosessuali senza modificare l’art. 29 cost., dato che i concetti di “famiglia” e di “matrimonio” non possono ritenersi “cristallizzati con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”, purché non si impatti “sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”.
In ogni caso e comunque, l’orientamento espresso nella pronuncia della Cassazione ed analizzato non risolve alcune criticità, che solo l’effettiva applicazione della recente normativa in tema di tutela della famiglia, anche non fondata sul matrimonio, ha fatto affiorare. Rimane il pesante dubbio, se l’interpretazione letterale e restrittiva seguita in questa pronuncia non determini una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni ragionevolmente comparabili, con l’effetto finale di operare una discriminazione sulla base del proprio orientamento sessuale, stante l’ostacolo dell’inapplicabilità retroattiva della legge sulle unioni civili.
Per concludere, auspico che questo breve contributo possa simbolicamente rappresentare un incentivo a una discussione che dovrebbe nutrirsi più di fatti e meno di pregiudizi. La conoscenza è il più potente strumento per scalfire i luoghi comuni e i preconcetti che sorprendentemente affliggono ancora l’umanità. C’è bisogno di aprirsi a una visione del mondo differente, non migliore o peggiore, semplicemente differente.
Il riconoscimento delle famiglie omosessuali, che di fatto già esistono, non toglie valore alla società, semmai ne aggiunge. Per questo è necessario guardare al di la del “tradizionale”. La tradizione non può e non deve giustificare la discriminazione come, purtroppo, tante tradizioni hanno fatto in passato, umiliando ad esempio la vita delle donne, penalizzando quella dei neri o perseguitando quella degli ebrei. In attesa di un cambiamento, che seppur avviato sembra ancora lontano, confido con questa breve riflessione di aver dato il mio piccolissimo apporto verso il definitivo riconoscimento di tutti i “nuovi diritti”, verso l’auspicato percorso che un diritto possibile, all’alba del nuovo millennio, deve necessariamente intraprendere, adeguandosi alle molteplici nuove aspettative determinate dagli evidenti cambiamenti socio-istituzionali.
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